Gv. 1, 35-42 Dom. II anno B

Sfogliando la Bibbia incontriamo tanti titoli attribuiti a Dio, tra i quali anche “colui che chiama”. È Lui che ha chiamato l’universo intero all’esistenza. Nulla e nessuno è anonimo davanti a Dio. L’essere chiamati ci fa capire il posto da occupare nel mondo e nel disegno di Dio. Ciascuno scopre la propria vocazione guardando dentro se stesso e ascoltando la Parola del Signore che si fa udire negli avvenimenti e nelle persone che ci stanno accanto.

Nel brano evangelico di oggi si trova un intreccio di sguardi, indicato dai verbi o da altre sfumature: Battista fissa “lo sguardo su Gesù” (1,36); Gesù guarda i discepoli che lo seguono (1,38); Gesù li invita: “Venite e vedete” e i discepoli “andarono e videro dove dimorava” (1,39) e infine Gesù che fissa lo sguardo su Pietro (1,42).

Questo gioco di sguardi evoca il desiderio di tante persone che hanno cercato di vedere Dio, il suo volto, ma anche evoca gli occhi di Dio posati sull’uomo/donna nella sua ricerca, nel cammino della vita. Ma in Giovanni, tutti gli sguardi conducono a un determinato luogo, a un preciso momento: a Cristo crocifisso (19,37: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”). San D. Comboni diceva: “…sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo”. Quindi, quando il Battista indica l’Agnello di Dio ai suoi discepoli, rimanda già alla croce.

Gesù rimarrebbe sconosciuto, nascosto tra la folla, se Giovanni Battista non lo avesse additato come l’Agnello di Dio. Il Battista ci ricorda che testimoniare non significa trasmettere agli altri qualcosa che si è appreso scolasticamente. Senza la testimonianza del Battista i suoi due discepoli non avrebbero seguito e conosciuto Gesù. Così è stato anche per Samuele, che ha potuto entrare in relazione con Dio soltanto dopo aver ascoltato il sacerdote Elì, quindi attraverso la mediazione umana. Sorprende il fatto che Samuele era già al servizio di Yahvé da vari anni (1Sam.3,1), ma non lo conosceva ancora: è possibile stare nella casa di Dio, anche facendo servizi per Lui, ma non conoscerlo. Samuele, dopo aver vissuto tanto tempo nel Tempio, non aveva dato ancora la sua piena adesione e disponibilità a collaborare con Dio. Possiamo essere persone devote, partecipare a tutte le cerimonie religiose senza conoscere il Signore; possiamo insegnare catechismo per anni ai bambini senza coltivare un rapporto personale con Gesù. Anche gli abitanti di Nazareth e gli stessi familiari di Gesù, dopo aver vissuto accanto a lui per trenta anni, non l’avevano conosciuto (Mc.6,1-6)

Così Andrea e l’altro discepolo (anonimo) iniziano a seguire Gesù. Scopriamo un altro aspetto della testimonianza: non voler trattenere le persone per sé, ma aiutarle a trovare la strada che Dio ha tracciato per loro. Il vangelo rifiuta l’autoreferenzialità.
I due discepoli nel seguire Gesù non dicono nulla. Allora Lui prende l’iniziativa e chiede loro: “Che cosa cercate?” (non chiede: “Chi cercate?”). Sono le prime parole di Gesù nel vangelo di Giovanni, che ci ricordano quelle rivolte a Maddalena nel giorno della Risurrezione: “Donna perché piangi, chi cerchi?” (20,15). È una domanda imbarazzante e si aspetta una risposta. Gesù non ci chiede sacrifici, rinunce, impegni e sforzi. Semplicemente di entrare in noi stessi, di conoscere il nostro cuore, pellegrinare nella nostra interiorità.

Sebbene l’uomo/donna è l’essere in ricerca, spesso questa è contrassegnata dall’ambiguità, dalla doppiezza: succede che chi cerca Dio, cerchi solo sensazioni o adulazioni o sicurezza o guarigioni o semplicemente se stesso. La vera ricerca ci porta verso un “tu”, verso la relazione con Qualcuno.
L’evangelista sta insinuando che esistono sequele sbagliate.

I due discepoli non chiedono a Gesù cosa devono fare, che cosa insegni o che verità trasmetta o qual è il comandamento più grande, ma: “Rabbi, dove abiti?”, cioè dove dimori/rimani?
Non si tratta di rimanere in un preciso luogo, ma in una relazione. Di solito, il luogo dove uno vive indica lo stile di vita che ha. Gesù dimora nell’amore fedele del Padre: “A chi mi ama il Padre mio e io verremo in lui e prenderemo dimora in lui” (Gv.14,23). Per conoscere Gesù, occorre “stare e perdere” tempo con Lui. Per i due discepoli è l’inizio di un cammino, quindi non c’è ancora una piena comunione: differente è “rimanere presso/rimanere con” da “rimanere in” (15,1-17: “Rimanete in me e io in voi”), differente è seguire che accompagnare Gesù.

Dopo l’incontro con Gesù, Andrea sente la necessità di farlo conoscere: “incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: Abbiamo trovato il Messia”. La precisazione “per primo” indica che l’attività di Andrea non termina con l’invito di suo fratello. L’esperienza con Gesù è qualcosa di contagioso: Andrea chiama Simon Pietro, Filippo chiama Natanaele (1,43-51)

Entra in scena Simon Pietro, come se fosse un personaggio già conosciuto dai lettori. Inoltre viene menzionato con l’appellativo che Gesù gli annuncerà in seguito. Simon Pietro si trova nei paraggi perché attratto dal movimento del Battista, ma non ha ascoltato il messaggio del precursore e neppure ha seguito Gesù come fecero gli altri due. Andrea gli comunica che l’attesa è finita, il Messia è presente.
A tale annuncio, Simon Pietro non fa nessun commento né manifesta alcun entusiasmo. In tutta la scena non dice una parola. È completamente passivo, non prende nessuna iniziativa: sarà Andrea a condurlo da Gesù, il quale “fissando lo sguardo su di lui” gli dice che sarà chiamato “Cefa, che significa Pietro”.

Gesù non cambia il nome a Simone, ma dice che sarà chiamato Pietro: il lettore capirà il significato di tale appellativo lungo tutto il vangelo. Comunque Gesù non lo chiamerà mai con questo appellativo, ma sarà lo stesso evangelista a farlo (quando tentenna tra fedeltà e opposizione sarà chiamato Simon Pietro, mentre è in opposizione o in contraddizione con Gesù, sarà nominato Pietro).
Stranamente, in questo vangelo, Gesù non invita Simon Pietro a seguirlo e neppure Pietro, da parte sua, si offre. Solo alla fine del vangelo Gesù dirà a Simone: “Tu seguimi” (21,22).

Per cercare Dio e seguire Gesù, il punto di partenza è il nostro volto, la nostra condizione e storia personale (limiti, difficoltà, paure, dubbi, debolezze), insomma la verità dentro di noi. La Parola ci fa da specchio.
Un detto rabbinico dice: “Quel giorno (cioè nel giorno ultimo) non mi sarà chiesto se sono stato come Mosè o come Elia o come uno dei profeti, ma solo se sono stato me stesso”. La fede non si trasmette attraverso i libri, ma con la testimonianza della propria esperienza con il Signore.

Limone sul Garda, Gennaio 2021

Autori consultati: E. Bianchi, Curtaz, Jannelli, Ronchi, Mateos-Camacho, Maggi, Armellini, Grilli, Farinella e altri.

Mostrati, Signore
a tutti i cercatori del tuo volto,
mostrati, Signore;
a tutti i pellegrini dell’assoluto,
vieni incontro, Signore;
con quanti si mettono in cammino
e non sanno dove andare cammina, Signore;
affiancati e cammina con tutti i disperati
sulle strade di Emmaus;
e non offenderti se essi non sanno
che sei tu ad andare con loro,
tu che li rendi inquieti
e incendi i loro cuori;
non sanno che ti portano dentro:
con loro fermati poiché si fa sera
e la notte è buia e lunga, Signore.

David Maria Turoldo